L’opera grafica di Adolfo Wildt nella collezione Tabarroni
L’opera grafica di Adolfo Wildt nella collezione Tabarroni
La collezione Tabarroni comprende millenovecentoquarantotto stampe che coprono un arco temporale che va dagli ultimi anni dell’Ottocento fino agli anni Settanta del secolo scorso. Il corpus delle opere è suddiviso in base alla nazionalità degli artisti e alla loro età anagrafica. Proprio sulla base di questo criterio collezionistico acquistano un senso particolare le opere di Adolfo Wildt ivi presenti, sia per la distanza temporale che le separa, sia per le particolari scelte stilistiche dell’artista. Wildt, infatti, rappresenta uno dei casi più interessanti e ‘aperti’ del Simbolismo e dell’Espressionismo italiano e internazionale, collocandosi in una sorta di zona di confine tra i due movimenti. Questa ‘terra di mezzo’ in cui l’artista milanese si trova a operare si spiega col criterio delle generazioni. [1]Sul concetto di generazione si veda Barilli 1982, p. 49 e sgg. I Simbolisti nascono quasi tutti intorno al 1860, mentre gli Espressionisti nel 1880. Wildt invece nasce nel 1868, quindi troppo tardi per partecipare in pieno al clima simbolista fin-de-siècle, ma nello stesso tempo troppo presto per superarlo del tutto e svolgerlo verso ciò che facevano i compagni più giovani, che diventano i protagonisti dell’Espressionismo ‘ufficiale’.
La stessa ‘irregolarità’ cronologica di Wildt inoltre, se da un lato spiega la difficoltà che comporta una rigida collocazione dell’artista all’interno di un solo ‘ismo’, dall’altro ci consente di chiarire anche un altro tipo di considerazione a prima vista molto singolare. Lo stile fortemente sintetico di origine simbolista adottato dall’artista, unito ad un altrettanto robusto irrigidimento di chiave espressionista uniti a tratti classicisti di sapore ellenistico e manierista che, a partire dalla metà degli anni Venti entrano nel suo repertorio, lo porterà paradossalmente a superare i limiti storici del primo decennio del Novecento, per arrivare negli anni Venti ad inserirsi con grande agilità nel clima del ‘ritorno all’ordine’ e a diventare uno dei più singolari rappresentanti del Déco in Italia.
Dalla Maternità alla Deposizione
Adolfo Wildt, Maternità, acquaforte, mm 195×266, Tip. 30881 © Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe
L’analisi ravvicinata delle due opere presenti in collezione spiega meglio quanto detto sopra. La prima, Maternità, è un’acquaforte datata 1914 e appartiene alla prima serie delle opere d’arte grafica realizzate dall’artista lungo la sua carriera (Tip 30881). Wildt, infatti, si dedica all’incisione con una certa continuità a partire solo dal 1913, quando di fatto si era già imposto all’attenzione del pubblico come scultore. Lo stile adottato dall’artista milanese in quest’opera è caratterizzato da un sofisticato e leggero linearismo che, tracciando la figura solo per contorni, gioca su una accentuatissima astrazione, rinunciando ad ogni referente naturalistico. In questa incisione infatti le figure dell’angelo, del bambino e della madre sono costruite mediante un tratto molto sottile e preciso, condotto secondo un tracciato continuo che scorre sulla superficie senza interruzioni, nel pieno rifiuto del gioco chiaroscurale. I tre protagonisti della composizione risultano essere, di conseguenza, estremamente ‘gracili’, ridotti a leggerissime silhouettes prive di peso. Tale economia di segno nega ogni possibilità d’individuazione spaziale, consentendo ai personaggi rappresentati di rimanere sospesi in una sorta di non-luogo, dove ciò che conta è una specie di galleggiamento virtuale. Ci si trova quindi di fronte ad una concezione totalmente bidimensionale dell’opera, cui contribuisce anche l’inserto in oro posto al centro della composizione in quanto, essendo questo ultimo in à plat, funge da barriera di contenimento che salda in maniera irrevocabile l’intera composizione sul primo piano.
Questo modo di interpretare il disegno secondo uno stile fortemente sintetico testimonia l’influenza che ebbero sull’artista milanese i protagonisti della Secessione tedesca e viennese, in primo luogo Gustave Klimt e, attraverso loro, le opere dell’olandese Jan Toorop e dell’inglese Aubrey Beardsley. Come giustamente fa notare Paola Mola, infatti, l’artista non era un isolato, come spesso si è tentato di descriverlo, al contrario egli “viveva e lavorava a Milano, ma il suo orizzonte era europeo” [2]Mola 1989, p. 10..
Sintetismo simbolista quindi, filtrato però attraverso una profonda riflessione che l’artista compie sui ‘primitivi’. Wildt, infatti, pur tenendo presente gli artisti contemporanei sopra citati, rivolge il suo sguardo anche alle opere di Dürer e dei maggiori maestri del primo Rinascimento italiano di area settentrionale come Francesco Squarcione, Carlo Crivelli, Cosmè Tura e Francesco del Cossa. Questi ultimi, com’è noto, sono portatori di una cultura figurativa basata su un disegno duro e insistito. La loro pittura, di fatto, è caratterizzata da un trattamento dell’immagine che si potrebbe definire da opificio, quindi particolarmente consona all’artista milanese nel suo doppio ruolo di incisore e di scultore. Di questo linguaggio ‘arcaico’ adottato da Wildt ne sono consapevoli anche i critici dell’epoca. Particolarmente illuminante a proposito è la testimonianza del critico Mario Tinti che sul catalogo edito da “Valori Plastici” della Prima Esposizione Nazionale dell’Opera e del Lavoro della Primavera Fiorentina scrive:
“(…) il misticismo completamente dominato dal senso estetico s’incarna in forme umane emaciate e scarne, potentemente espressive, che fan pensare alla maniera più matura di Cosmé Tura – un artista italianissimo, eppure anch’egli nutrito “per li rami” di spiriti nordici, con la cui arte tormentata e spasmodica quella del Wildt presenta qualche analogia stilistica”. [3]Tinti 1922, p. 236.
Questo dato porta inevitabilmente l’artista milanese ad abbandonare i ‘molli’ e avvolgenti grovigli tipici della precedente stagione liberty in favore di una linea più rigida, meno esuberante e decorativa, più ‘pulita’ e asceticamente severa. Le figure wildtiane, forti della loro astrazione, subiscono di conseguenza un violento processo di deformazione che va anch’esso ben oltre le delicate alterazioni anatomiche operate dai simbolisti fin-de-siècle. Wildt stesso, d’altronde, in più occasioni spiega il motivo di questa sua scelta. In una intervista del 1919, ad esempio, dichiara:
“Io ho il diritto di contorcere, di alterare la foggia tradizionale di un elemento, di un organo, di un membro, se questa alterazione darà al mio lavoro un coefficiente di espressione più acuto e più forte (…) c’é un muscolo che presiede a certi movimenti mimici del viso, un muscolo che entra in gioco quando si ride o quando si soffre. Ebbene io accresco questo muscolo al di là del normale, quando voglio esprimere un sentimento che, nella gioia o nella sofferenza, è anch’esso al di là del normale”. [4]Ciampelli 1919, pp. 21-22.
In ultima analisi quindi entrano in gioco nell’opera dell’artista due componenti tipiche dell’Espressionismo: la deformazione e il primitivismo. Come ha ben dimostrato la Borgogelli infatti “la ‘deformazione’ diventa la parola d’ordine di tutta una generazione, assieme al recupero del ‘primitivismo’, variamente inteso”. [5]Barilli, Borgogelli 1990, p. 21. Nel caso di Wildt però questi elementi danno vita a un tipo di espressionismo del tutto personale in quanto non si manifesta nei modi ‘selvaggi’ così come generalmente accade ai suoi colleghi più giovani. Quello di Wildt è un espressionismo, per così dire, più cerebrale che viscerale. Le figure di questa maternità, difatti, nonostante i violenti allungamenti dei corpi visti sopra, rimangono sempre composte e raccolte. Anche sul versante specifico dei contenuti poi, i temi trattati sono ancora per la maggior parte legati ad una visione ‘mistica’, proprio quella tipica delle poetiche di fine Ottocento. In altre parole, il segno estremamente magro usato dall’artista vuole sempre ‘evocare’, rimandare ad un evento ‘alto’ appartenente a una dimensione magica-religiosa e non riferirsi a un fatto mondano.
Un confronto diretto con uno dei massimi rappresentanti del nostro espressionismo, Arturo Martini (1889-1947), può servire a chiarire questa situazione di ‘compromesso’. Ancora la Borgogelli rileva che “Wildt, che è il più anziano degli artisti più propriamente espressionisti, partecipa con varie sculture a questo clima di rinnovamento (…) però, l’altro grande scultore di questo periodo, Arturo Martini, non lo comprende e condanna in lui “l’artificio”, la “degenerazione”, e la “malattia” (…) Comunque per un momento ambedue creano ‘mostri’, fra i più belli della nostra Storia dell’Arte”. [6]Ibidem. ‘Artificio’, ‘degenerazione’ e ‘malattia’ sono proprio quei retaggi di fine secolo tipici della congiuntura simbolista rifiutati da Martini, da cui Wildt proviene e che ancora si porta dietro.
Oltre a questo dato però, le divergenze fra l’artista di Treviso e quello di Milano si amplificano proprio sul terreno comune del primitivismo. Wildt, infatti, rimane legato ai materiali ‘nobili’ della tradizione artistica (pergamena, carte pregiate, china e oro), mentre Martini privilegia materiali ‘bassi’ come, ad esempio, la xilografia e la cheramografia. In altre parole, se Wildt può trovare paralleli con i raffinati miniatori attivi nelle abbazie, Martini riscopre linguaggi espressivi più ‘popolari’. È il caso, ad esempio, dell’incisione su pasta d’argilla conservata sempre in collezione Tabarroni intitolata Superuomo, realizzata dall’artista trevisano nel 1913 e quindi vicino cronologicamente all’incisione wildtiana (Tip. 30945). Dal confronto delle due opere si rileva chiaramente quanto il segno di Wildt sia ‘leggero’, mentre quello di Martini risulti ‘pesante’. Nella carta dell’artista milanese, infatti, la materialità del gesto scompare dietro a una linea sottile, mentre nel foglio di Martini il segno è grosso e ‘pastoso’, inciso pesantemente.
Il discorso sulla ‘preziosità’ di Wildt, di questo suo gusto per i materiali nobili e le fini cesellature di stampo neoquattrocentesco concordano con un altro aspetto dell’artista: il “ritorno all’ordine”. Come molti altri protagonisti della prima stagione espressionista, anche Wildt al volgere del secondo decennio del Novecento sembra placare per un momento i suoi furori deformanti e le violenze disseccatrici. Nella Deposizione della collezione Tabarroni, litografia datata 1929, l’artista rimpolpa le proprie esili figure, introduce sapienti giochi chiaroscurali e costruisce una scatola architettonica che inquadra i soggetti trattati all’interno di uno spazio tridimensionale (Tip. 30882). In altre parole, Wildt passa da un esasperato linearismo di matrice astratta, ad un segno più attento al recupero dei valori plastici, delle proporzioni e dei principi luministici. Il risultato finale è la costruzione di un’immagine ‘classicheggiante’ dal forte impatto monumentale, unito ad un vago sentore metafisico.
Adolfo Wildt, Deposizione, litografia, mm 345×257, Tip. 30882 © Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe
A questo punto diventa necessario accennare brevemente a un’altra componente presente nelle opere di Wildt: l’elemento classico. Oltre alla comprensione dei primitivi vista in precedenza, infatti, l’artista milanese mostra un certo interesse per il classicismo, in particolare delle epoche tarde, quelle in cui la corretta interpretazione del canone si piega in deformazioni espressive: l’Ellenismo e il Manierismo cinquecentesco. Molte sono le testimonianze a riguardo riportate dell’artista stesso in varie occasioni, a partire dalle frequenti citazioni che egli fa, per esempio, del Laocoonte e delle opere di Michelangelo nel suo testo L’arte del Marmo [7]Cfr. Wildt, 2002.. A conti fatti quindi, fra questi elementi e quelli legati al recupero dei primitivi non esistono contraddizioni. Entrambi, di fatto, riescono a convivere nell’opera di Wildt proprio perché uniti sotto l’insegna di quel forte antinaturalismo prediletto dall’artista.
Per altri versi, questa ‘combinazione’ di diversi referenti museali, s’inserisce perfettamente anche all’interno del clima déco. I caratteri di questo stile infatti sono il frutto di una unione e di una sintesi di più elementi all’apparenza molto distanti fra loro. Per dirla con le parole di Ben Hiller, uno dei primi studiosi in quest’ambito di ricerche, il déco è “uno stile e un gusto unitario seppur eclettico”; come sottolinea Rossana Bossaglia Wildt “è dunque una sorta di anticipatore del déco e ne sarà subito dopo uno degli interpreti più precisi nel campo della grafica, anche se immune da qualsiasi vezzosità”. [8]Hiller, 1968, p. 12; Bossaglia, 2000, p. 33.
Note
Bibliografia
Ciampelli 1919
G. M. Ciampelli, Scultura ardita. A.W., in “Ardita”, I, n. 1, Milano, 15 marzo 1919, pp. 21-22.
Tinti 1922
M. Tinti, A.W., in La Primavera Fiorentina, Prima Esposizione Nazionale dell’Opera e del Lavoro, catalogo della mostra (Firenze 1922), Roma, 1922, p. 236.
Hiller 1968
B. Hiller, Art Déco of the 20s and 30s, London, 1968.
Barilli 1982
R. Barilli, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bologna, 1982.
Mola 1989
P. Mola, V. Scheiwiller, Adolfo Wildt 1868-1931, Milano, 1989.
Barilli, Borgogelli 1990
R. Barilli e A. Borgogelli (a cura di), L’Espressionismo Italiano, Milano, 1990.
Bossaglia 2000
R. Bossaglia, Wildt e lo stile déco, in E. Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi, Milano-Ginevra, 2000.
Wildt 2002
A. Wildt, L’arte del marmo, a cura di E. Pontiggia, Milano, 2002.