A partire da un disegno preparatorio per la stampa con “Mercurio e Argo” di Simone Cantarini
A partire da un disegno preparatorio per l'acquaforte con "Mercurio e Argo" di Simone Cantarini
Ho avuto la fortuna di conoscere, grazie alla cortesia della sua intelligente e informata proprietaria, Nathalie Masselink, a Parigi, il progetto grafico di Simone per l’acquaforte raffigurante Mercurio ed Argo. Si tratta di un foglio disegnato a matita nera, e quadrettato per la trasposizione sulla lastra. Il segno è visibile anche se un poco blando per il lungo tempo passato, ma ciò non toglie che non se ne possa adeguatamente gustare la sapiente e insieme gradita delicatezza, che naturalmente nell’originale parigino si esalta più sensibilmente alla vista.
Simone Cantarini detto il Pesarese, Mercurio e Argo, matita nera e matita rossa, mm 265×305 © Parigi, Proprietà privata
Come Simone dimostra nelle sue acqueforti, e prima di esse nei suoi disegni, il suo personale segno è dotato d’una sensibilità che sovrappone – come egli desiderava per l’intera vita – la grafia del Barocci e quella più organica di Guido Reni: tra la sensorialità del primo e la sublime accademia del bolognese corre appunto gran parte della sua desiderata volontà di futuro, il segno stesso che prelude alla mente pittorica del XVIII secolo.
L’acquaforte, nei suoi caratteri genealogici e anche in quelli genetici, è stata seriamente studiata e registrata da Paolo Bellini nel suo buon catalogo annotato, dedicato a L’Opera Incisa di Simone Cantarini, edito a Milano, Castello Sforzesco, nel 1980: una redazione espositiva ben prefazionata da Clelia Alberici. Credo che io possa rinviare utilmente alle pagine di un esperto come il Bellini, che annota due stati della stampa, la prima vergine e la seconda con l’annotazione del Rossi alla Pace a Roma.
Simone Cantarini detto il Pesarese, Mercurio e Argo, acquaforte, foglio smarginato mm 261×305, inv. PN 24760 © Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe
Il soggetto è di natura arcadica e connesso con sapienza al progredire del paesaggio ideale e del classicismo. Mercurio appare intento con il suono del suo strumento a fiato ad addormentare Argo, così da potergli rapire Io, l’amante di Giove, che Giunone aveva trasformato in giovenca. L’ambiente agreste è di eletta qualità paesaggistica, ornato di querce e declina verso una pianura dove sembra scorrere un fiume lontano. Il cielo è sereno e diafano, illuminato da un sole estivo che avvalora con la sua temperatura la tradizione entro la quale da Annibale Carracci ad Adam Elsheimer la campagna romana si distende tanto bella e suggestiva. Mercurio siede su di un relitto roccioso che sorge a pie’ degli alberi, e la giovenca pascola pochi metri oltre volgendo il capo verso la scena e ciò che sta avvenendo.
Il Bellini ha registrato i disegni preparatori o comunque legati a questa occasione magistrale: una matita rossa a Windsor, una penna a Edimburgo, un’altra matita rossa nella Biblioteca di Rio de Janeiro, e infine un ultimo disegno a Brunswick, nel Maine. Giustamente, il Bellini ricorda che esiste un dipinto a Oberlin, Ohio, che si attribuisce a Pier Francesco Mola (Allen Memorial Art Museum). Il rame è conservato nella Calcografia Nazionale di Roma.
Ancora l’attenzione del Bellini ha registrato dell’acquaforte un paio di copie, riconoscibili dalla zampa anteriore della giovenca, che nell’originale è coperta di tratti orizzontali, e qui non appare ombreggiata. In controparte, la sola figura di Argo fu incisa da Ludovico Mattioli.
Come quasi tutte le incisioni del Pesarese, il tracciato incisorio è molto semplice e netto, così come le zone chiaroscurate che mediante l’uso della copertura a cera si istituiscono entro una topografia limitata. Si ha quasi sempre l’impressione che l’incisore – salvo che in pochi casi – abbia proceduto alla realizzazione di fogli tenendosi ben fermo alla possibilità di un numero alto di pressioni di stampa e cioè ripromettendosi un elevato numero di tirature e di copie. Quasi che egli si aspettasse dall’opera un reddito economico possibilmente consistente.
Dopo un esordio descrittivo molto semplice, a voler entrare nel problema stilistico e delle sue conseguenze di valore cronologico, l’esame dell’incisione con Mercurio e Argo appare tuttavia, come a queste date può accadere, assai arduo. Così come ardua è l’intera attività del Pesarese, del quale rimane ferma ad un appuntamento fissato nel tempo quella Madonna con il Bambino che tiene col filo un uccellino del quale abbiamo alcune conoscenze anche biografiche e che – alla pari di altre opere – si stabilisce al 1637: un anno infatti pieno di conflitti nella vita del Pesarese, che contava allora soltanto venticinque anni. E che fu insieme il primo evento d’una serie penosa di contrarietà, mossa e promossa fin dall’inizio dal suo rapporto con Guido Reni.
Simone Cantarini, Madonna con Bambino e l’uccellino, acquaforte, foglio smarginato mm 220×148, inv. PN 24740 © Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe
A giudicare dai contenuti così iconografici che di stile di Cantarini incisore, mi sembra possibile suddividere i tempi di elaborazione e di esecuzione che affiorano abbastanza espliciti all’osservazione e allo studio della sua opera in genere. C’è una parte, la più giovanile, che è costituita dalle piccole Madonne con il Bambino, ovvero dalle Sacre Famiglie di composizione raffinatamente popolare, molto delicate di tocco e tuttavia di un sapore naturalistico che rinvia – come è inevitabile che sia – al primo tempo marchigiano della sua precoce attività di artista.
A far da cesura tra le stagioni, si alzerà poi l’espressione della finissima tecnica assorbita dalla vicinanza di Guido Reni, forse la stessa che Guido, il desiderato maestro, gli permise di instillare con un fresco e insieme nobile disegno; valga come modello la già citata Madonna col Bambino e l’uccellino, uno dei brani di maggior dolcezza familiare e di più serena pulsazione affettiva, dove il seme di un classicismo temperato tende a costruire forme musicali e insieme di elaborata, appassionata malinconia: eredità che appare presto destinata a preparare il futuro di Lorenzo Pasinelli, e quello stesso di Donato Creti. A lungo, e da molti anni, ho insistito sulla qualità dei ritorni e dei ricorsi bolognesi, una struttura della secentesca “ritentiva” che ha permesso ed assicurato alla tradizione pittorica felsinea di garantirsi una vita di solido storicismo, di conclusa solidità poetica all’interno di un organismo che si riconosce con costanza in se stesso ed insieme si garantisce in quanto organismo.
La stagione più variata e luminosa, preludio di arcadia e ispirazione d’un classicismo narrativo, fatto di idilli sacri in gran parte – le Soste in Egitto ne sono un poeticissimo e ricorrente capitolo – e di qualche modello romanistico neo-antico, come è appunto il nostro Mercurio e Argo, mostra di decorrere con il viaggio a Roma e alcune esperienze là maturate: e tanto esclusive da rendersi esplicite solo nell’esperienza grafica e incisoria. Mentre il mondo del pittoresco e della tavolozza seguiterà sui suoi più consueti binari, organizzati sulla commessa liturgico-ecclesiastica, è necessario constatare come ben poco di esso passerà all’incisione, e viceversa. Credo che si possa dire che solo il quadretto della Sosta in Egitto del Louvre possa considerarsi trasferito dall’acquaforte alla tela: e se ne intende bene il tono delicato, la morbidezza e insieme la malinconia che sembrano tradotti in pittura, una volta ancora, con un certo, e originario, penchant baroccesco.
In effetti, la barriera dei materiali e delle forme che si è instaurata tra le due diverse categorie di lavoro, rende anch’essa ulteriormente difficoltoso tradurre caratteristiche tecniche, segnali linguistici e modelli di stile, con un rapporto che avrebbe consentito in qualche caso di appianare le discrasie cronologiche frequenti, e le reali difficoltà ad intendere il cammino di Simone in molti luoghi e stagioni della sua attività. Che è come dire della sua stessa vita. L’esame del Mercurio ed Argo lo dimostra a sufficienza proprio per la sua comprensibilità difficile perché priva di immediati ponti e di intuitive connessioni con la “catena”, come la chiamava Canova, dell’organizzazione delle opere eseguite.
Per cominciare, come abbiamo già detto, le peculiarità del modello classicistico che regge e domina insieme la forma dell’acquaforte e che è di temperatura romana, non si ritrova affrontato con pari attenzione nel mondo della pittura, né come ispirazione né come tramando verso altri. L’ispirazione è antica, l’abbiamo ricordata come in sostanza annibalesca, e se dovessimo resuscitare un grado di classicismo analogo – ma non simile – dovremmo fare appello a qualcosa che assomiglia alla misteriosa giovinezza di Alessandro Algardi. Chissà, forse ciò serve a rievocare la possibilità che tra le mani di Simone sia ritornato qualche forte modello più tipico del mondo della scultura, fino a Duquesnoy, e anche del bassorilievo bronzeo.
Poche mi sembrano le collusioni con Andrea Sacchi, che pure interessava comprensibilmente il nostro Simone. C’è tuttavia un sentimento che, à rebours , domina la sua intelligenza, e che giunge fino agli affreschi di Palazzo Magnani con Storie di Roma. Il nome già pronunciato di Pier Francesco Mola serve solo a fornire un’allusione verso un’altra immagine di comodo.
Il fatto è che tutta la vastissima estensione inedita di Simone e del suo classicismo si cela intensamente nel disegno: che costituisce un repertorio molto vasto, bellissimo e pressoché non indagato. E ciò, nonostante che le due mostre monografiche di Pesaro e di Bologna (1997) abbiano portato alla luce e messo sotto gli occhi di visitatori e di studiosi almeno l’eccezionale qualità generale del materiale grafico. Forse l’attività pittorica dell’artista, che non raggiunge sempre questa omogenea qualità, si disperde anche per ragioni di vita e di economia in un mondo ovviamente liturgico e di sacra devozione, qual era quello dominato dalla committenza delle chiese e dei conventi. Il mondo del disegno di Simone detiene e signoreggia dunque quasi tutta l’orma culturale del classicismo e del ‘romanismo’ dell’artista intellettuale che egli fu , senza peraltro potersi espandere anche nell’esercizio della pittura. Il collezionismo crescente, in quegli stessi anni di attività di Simone, non era ancora in grado di alimentare una immagine di modi classicistici. Il disegno resta comunque la sua vera espressione e nel disegno – come anche in questa stessa acquaforte – si attesta la sua propria identità, in un’autonomia vera, in una sfera intangibile e non compromessa. E’ questa la garanzia-ultima, la più tarda, dell’enorme mondo dell’idea che appare indispensabile – anche se solo a matita nera e rossa – a sorreggere l’arte bolognese.
Nota bibliografica
A. Emiliani, Simone Cantarini: opera grafica (I), in “Arte Antica e Moderna”, n. 8, ottobre-dicembre 1959, pp. 438-456; P. Bellini, L’opera incisa di Simone Cantarini, presentazione di C. Alberici, Milano, 1980; Simone Cantarini nelle Marche, catalogo della mostra a cura di A. Emiliani, A.M. Ambrosini Massari, M. Cellini, R: Morselli (Pesaro 1997), Venezia, 1997; Simone Cantarini detto il Pesarese 1612-1648, catalogo della mostra a cura di A. Emiliani (Bologna 1997-1998), Milano, 1997.