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Sotto il segno di Capogrossi

Sotto il segno di Capogrossi

L’opera di Giuseppe Capogrossi conservata presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe della Pinacoteca nazionale di Bologna è una litografia a colori di mm 487 x 330 impressa su un foglio di carta Fabriano di mm 650 x 475. Reca in basso a destra la firma “Capogrossi” in caratteri corsivi, a matita, e in basso a sinistra, sempre a matita, la dichiarazione di esemplare e tiratura in numeri arabi 3/150. Compaiono inoltre in basso a destra due timbri a secco di proprietà: quello della Libreria Prandi di Reggio Emilia e quello della Collezione Luciana Tabarroni, la raccolta di grafica europea del Novecento acquisita dallo Stato italiano e destinata alla Pinacoteca bolognese nel 2002. Come di consueto nelle stampe dell’artista, il foglio non porta né titolazione né data, entrambe deducibili da fonti documentarie e dalla bibliografia.

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Giuseppe Capogrossi, Superficie, litografia a colori, mm. 470×320 (parte figurata) 657×475 (foglio), inv. Tip. 31011 © Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe

Il titolo Superficie che appare nei cataloghi delle due mostre dedicate alla collezione Tabarroni in cui l’opera è pubblicata, [1]Bologna 2003, pp. 69, 71; Roma 2004, pp. 85, 87. fu desunto dalla scheda autografa che la collezionista aveva compilato per questa come per tutte le stampe da lei possedute, fornendo spesso notizie “di prima mano”, sovente non deducibili da altre fonti, che sono state rispettate, salvo rari errori evidenti, in occasione sia della catalogazione per la notifica della raccolta, sia delle esposizioni. In questo caso Luciana Tabarroni aveva desunto il titolo da quello che Capogrossi andava attribuendo ai suoi dipinti a partire dal 1952, o direttamente sulla tela – di solito al verso- oppure nel registro in cui progressivamente annotava le opere realizzate. Solo nel 1969, ovvero svariati anni dopo l’acquisto dell’opera da parte della collezionista nel 1960 presso la Libreria Prandi di Reggio Emilia, Capogrossi inizia la registrazione dei propri lavori grafici (disegni, gouaches, collages, litografie), comprendendovi pure quelli realizzati in precedenza, a partire dal 1950, anch’essi definiti Superfici nel testo, dove l’artista, pur non seguendo nella catalogazione l’ordine cronologico, fornisce riferimenti utili alla datazione dei fogli. Sulla base di questo elenco procederà Ulrike Von Hase Schmundt per la compilazione del catalogo dell’opera grafica di Capogrossi che verrà pubblicato a Zurigo nel 1982 dall’editore Erker di San Gallo, col quale l’artista aveva collaborato nell’ ultimo periodo di vita. [2]Hase Schmundt 1982.

Nel testo di Von Hase Schmundt – che conta centoventidue matrici – l’opera di riferimento per l’esemplare in collezione Tabarroni è catalogata al n. 15, corrispondente al n. 9 del registro autografo di Capogrossi, integrato con lavori che l’artista non aveva considerato nella propria redazione. Oltre alla stamperia e all’edizione, che sono quelle del Cavallino di Venezia come per la maggior parte delle litografie di Capogrossi, l’autore riporta la data 1957, desunta evidentemente dal registro originale o da altro documento attendibile. Tale datazione fu rispettata nella schedatura della collezione e nelle pubblicazioni relative alle mostre sopra citate, nonostante la scheda autografa di Luciana Tabarroni ne riportasse una diversa, il 1958, probabilmente da lei attribuita sulla scorta di notizia fornitale dal venditore, come talvolta le accadeva di fare in mancanza di altra documentazione certa. Indubbiamente suscita qualche perplessità il fatto che, dopo la pubblicazione del volume di Von Hase Schmundt (che non solo conosceva, ma conservava fra i suoi libri) la collezionista, solitamente molto attenta e rigorosa nei confronti di tutto quanto riguardasse la sua raccolta, non abbia corretto la data sulla propria scheda, quasi dubitasse di quella pubblicata; o piuttosto considerasse ininfluente la differenza, ben sapendo che Capogrossi, ricostruendo il suo percorso grafico sul filo della memoria, aveva potuto incorrere in qualche inesattezza.

L’esistenza di un dipinto ad olio su tela, Superficie 325, [3]Argan e Fagiolo 1967, p. 180, n. 371. identico per segno, composizione, cromia alla litografia di collezione Tabarroni, ma inequivocabilmente datato 1959, non contribuisce a fare chiarezza sull’effettivo anno di esecuzione della stampa, mentre conferma come tali date (esatte o meno) siano di relativa importanza di fronte all’evidenza che sull’invenzione particolarmente felice comune alle due opere, Capogrossi si soffermò a lungo. Il dato più interessante è che, in questo caso, la sperimentazione sui diversi media espressivi avviene lungo un tragitto inverso rispetto a quello generalmente più consueto che va dal dipinto alla stampa; ma l’opera di Capogrossi è tutta così compiutamente grafica nella sua stessa genesi che risulta concettualmente improponibile al suo interno una netta distinzione –e dunque anche una successione- tra pittura e litografia.

Negli ultimi anni cinquanta l’artista è nella piena maturità di una ricerca che non subirà crisi fino alla conclusione. Nato il 7 marzo 1900 a Roma, aveva compiuto qui la sua formazione, alla Scuola del nudo tenuta nel primo dopoguerra da Felice Carena. Presto inserito nell’ambiente artistico romano, individua un proprio percorso che, arricchito da frequenti soggiorni a Parigi, sfocia nell’elaborazione di una pittura di impronta monumentale, non immemore della lezione cézanniana, condotta coi modi del tonalismo corrente, vicino a Roberto Melli e particolarmente a Emanuele Cavalli e Corrado Cagli. In questo ambito, a partire dalla prima mostra significativa, una collettiva con Cavalli e Di Cocco alla Pensione Dinesen di Roma, si svolge il primo ventennio della sua carriera, che vede successi e riconoscimenti importanti. Già nel 1930 partecipa alla Biennale di Venezia, un appuntamento che si ripeterà nel ’34 e nel ’36; nel 1933, con i due amici, espone lavori, già presentati a Roma l’anno precedente, prima alla galleria milanese del Milione, poi a Parigi, con la presentazione di Waldemar Gorge che parla, a loro proposito, di “Ecole de Rome”; nel 1935, nel ’39 e nel ‘43 è presente alla Quadriennale romana; nel 1932, ’37 e ’38 alla Mostra del Sindacato fascista Belle Arti; nel 1939, ’40 e ’42 al Premio Bergamo. Terminata la guerra, nel gennaio 1946, si tiene alla galleria San Marco di Roma la prima personale antologica, una rassegna di vent’anni di attività che consente di percepire un nuovo orientamento verso accordi cromatici più liberi e semplificati.

Comincia una fase di riflessione che prelude al mutamento, certo non estranea al clima di fermento che coinvolge nel dopoguerra tutta la cultura artistica italiana, protesa a veicolare dall’esperienza dei protagonisti delle avanguardie europee (e dei loro epigoni) un linguaggio consono alla nuova stagione post dittatura. È ben noto l’impatto sugli artisti italiani avuto dalla Biennale veneziana del 1948, con la presenza, fra l’altro, di opere di Kokoschka, Klee, Braque, Moore, Magritte e le mostre collaterali dedicate alla collezione Guggenheim e alla prima grande retrospettiva italiana di Picasso. Ma le acque erano già state smosse da tempo, soprattutto da parte dei più giovani: a Milano, sulla scia delle esperienze non figurative di pionieri quali Radice e Rho la via dell’astrattismo è alimentata dall’attività fervida di alcune gallerie e dal ritorno dall’Argentina di Lucio Fontana nel 1947; nello stesso anno a Roma, dopo un soggiorno parigino, Consagra, Sanfilippo, Carla Accardi sanciscono la nascita dell’astrattismo romano con la costituzione del gruppo Forma, seguiti presto da Perilli, Dorazio, Guerrini; e un po’ dovunque si assiste a tentativi di adeguamento al linguaggio europeo culminanti nel 1948 in quella Prima Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea –curata dall’Alleanza della cultura di Bologna- che susciterà la celebre sdegnata reazione di Togliatti sulle pagine di Rinascita.

Capogrossi in quell’anno presenta alla Biennale veneziana e alla Quadriennale romana opere neocubiste che testimoniano della sua partecipazione al clima generale, fra i pochi artisti “anziani” a mettersi pienamente in discussione. L’anno successivo, alla mostra dell’Art Club che si tiene alla galleria nazionale d’arte moderna di Roma espone tra alcuni artisti ancora orientati verso la figurazione e molti, più giovani, come Alberto Burri, che hanno già compiuto una scelta diversa.

Ma quella di Capogrossi non è certo una personalità da seguire tendenze o subire condizionamenti e se l’avvio al cambiamento certo non è avulso da quanto avviene nell’ambiente, il percorso che stabilisce immediatamente dopo è del tutto autonomo. All’interesse per i Francesi, non così nuovi per lui, si aggiunge l’attenzione verso l’arte viennese, la Secessione, Klimt, un mondo allora trascurato che lo attrae per la sua connotazione essenzialmente grafica anche nella dimensione pittorica, fatta di segni e di cromie compatte. Un soggiorno in Austria nell’estate del ’49 approfondisce la sintonia con quella cultura e si rivela forse determinante nel processo di semplificazione e geometrizzazione delle forme con cui Capogrossi perviene a una pittura non figurativa, rapidamente ma senza traumi, come lungo un sentiero già segnato e inevitabile. Compare subito il segno che diventerà l’elemento primario –necessario e sufficiente- della sua espressione. Nei primi dipinti rappresenta l’esito della stilizzazione estrema di una palizzata a lungo osservata e poi tracciata sulla tela proprio nei giorni della permanenza in Austria. Presto cade però ogni riferimento alla realtà e il segno si afferma come entità autonoma da qualsiasi connotazione concreta: sintesi elementare di curve e di punte, definito variamente con termini sempre insoddisfacenti (tridente, forchetta, pettine), accostato di volta in volta ai graffiti rupestri o agli ideogrammi giapponesi, è la forma con cui Capogrossi, articolandone variamente sulla superficie il tracciato, il colore e il ritmo iterativo, costruisce ogni immagine a partire dal 1950. Risale a questo anno la prima esposizione dedicata totalmente al nuovo indirizzo dell’artista, tenuta alla galleria del Secolo di Roma con presentazione di Corrado Cagli il quale propone una lettura del segno capogrossiano in chiave di simbolo archetipico. La mostra passa poi al Milione di Milano, quindi alla galleria veneziana del Cavallino, con cui l’artista inizia una collaborazione duratura che si estende a quella milanese del Naviglio, grazie al direttore di entrambe, Carlo Cardazzo. Nel corso del decennio espone ripetutamente nelle due sedi, divenute la vetrina del movimento Spazialista, cui lo stesso Capogrossi aderisce nel 1952, l’anno dopo aver partecipato, con Burri, Colla e Ballocco alla fondazione del gruppo Origine, iniziativa questa certo più congeniale alla sua poetica. Anche se nel rapporto con lo Spazialismo l’artista mantiene un atteggiamento autonomo, il legame con Cardazzo è fondamentale per la scansione delle mostre che regolarmente, tra personali e collettive, si susseguono a Milano e a Venezia, vero filo conduttore di un’attività espositiva subito diramata in tutta Europa, negli Stati Uniti e poi, dagli anni sessanta, nel resto del mondo. Prosegue anche la partecipazione alle più prestigiose iniziative pubbliche, dalla triennale di Milano, alle esposizioni romane della Quadriennale e della Galleria nazionale d’arte moderna, alle Biennali veneziane nel 1950, nel ’52 e, con una sala personale, nel ’54, l’anno in cui la sua autorevolezza in campo internazionale viene sancita dalla monografia che gli dedica Michel Seuphor. Nel decennio successivo, alla vittoria del premio della Biennale nel 1962 corrisponde la pubblicazione della seconda monografia, curata da Michel Tapié, cui segue quella di Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo nel 1967, a intervallare le due ultime partecipazioni alla mostra veneziana, nel 1966 e nel 1968.

Al rapporto con Carlo Cardazzo si deve anche l’inizio dell’attività grafica di Capogrossi che pubblica presso le Edizioni del Cavallino tutte le opere realizzate nel primo decennio di produzione, dal 1950, a parte quattro xilografie stampate in proprio. Con l’eccezione di un’acquaforte, tre serigrafie, una zincografia e un’incisione su linoleum, sono tutte litografie (tre in bianco e nero e diciotto a colori), la tecnica che Capogrossi sempre prediligerà. Il catalogo di Von Hase Schmundt registra al n. 34 la prima opera di diversa edizione, stampata dai fratelli Mourlot per le Editions du XX siècle, una ditta di livello altissimo nel campo della grafica internazionale (basti pensare, se non altro, alla collaborazione con Picasso), la prima di quelle a cui, nel prosieguo della carriera, si rivolgerà Capogrossi, pur conservando, soprattutto all’inizio, il rapporto privilegiato con Il Cavallino e con Il Naviglio: dalle edizioni milanesi Scheiwiller e Schwarz, rilevanti per le raffinate scelte culturali, si passa alla stamperia fiorentina del Bisonte e alle romane 2RC e Romero, portatrici di un’elevatissima qualità tecnica che ha segnato la storia della grafica nel secondo Novecento, per finire con le edizioni Erker di San Gallo per cui Capogrossi realizzerà le cartelle Quarzo nel 1970 e Opale nell’anno della morte, il 1972. L’inclinazione di Capogrossi per l’espressione grafica si consolida nel corso degli anni ed è documentata da mostre personali in gallerie private (la prima si tiene a Roma alla Schneider nel 1953) e dalla partecipazione alle esibizioni pubbliche che nei decenni cinquanta e sessanta contribuiscono a incrementare l’attenzione sull’argomento: specialmente la Biennale dell’incisione di Venezia, a cui espone nel 1959 e nel 1961 e l’Esposizione internazionale dell’incisione di Lubiana dove è presente nel 1957, nel ’67, nel ’69 e nel ’71. Non a caso si tratta delle manifestazioni che Luciana Tabarroni seguiva con particolare interesse, alla ricerca di opere per la collezione che, nata nel 1952, viene rapidamente arricchita con scelte oculate.

Quando avviene l’acquisto del Capogrossi la raccolta, pur già fornita di fogli importanti, è ancora agli inizi e gli artisti italiani documentati sono relativamente pochi: citandoli secondo l’ordine cronologico seguito nella collezione, si tratta di Piero Marussig, Soffici, Carrà, Boccioni, Casorati, De Chirico, Morandi, Funi, Bartolini, De Pisis, Viviani, Marini, Saetti, Manzù, Manaresi, Gentilini, Bruscaglia, Leoni. L’opera di Capogrossi è la seconda non figurativa ad entrare nella sezione italiana, preceduta solo di un paio di mesi dall’acquisizione alla Biennale di una litografia violentemente informale di Emilio Vedova (n. 11 da Il ciclo della protesta, 38/40, 1959 ) significativamente partecipe del movimento spazialista a cui anche Capogrossi è vicino. La visita alla Libreria Prandi di Reggio Emilia, fonte primaria di approvvigionamento in specie agli inizi, è veramente proficua in quel 26 novembre 1960 che indica anche l’acquisto di altri sette fogli: una xilografia di Lorenzo Viani, un’ acquaforte di Morandi, una di Castellani, una di Achille Lega e una di Sassu, una litografia di Campigli e una puntasecca di Ligabue. Pure in questo gruppo di opere così diverse tra loro, quella di Capogrossi si distingue nettamente per il colore, nelle altre assente, e per la composizione. È un lavoro esemplare del punto a cui è giunta la ricerca dell’artista e testimonia dell’acutezza e della prontezza di cui spesso dava prova Luciana Tabarroni nei giudizi e nelle scelte. Qui Capogrossi ha abbandonato il grafismo sottile, fremente di un’interna agitazione che caratterizzava l’inizio del suo percorso non figurativo avvicinandolo al contesto informale e ha conquistato quella saldezza di costruzione, quella monumentalità solenne, quella spazialità distesa che connoteranno la sua grafica e i suoi dipinti da questo momento. Gli strumenti con cui perviene all’equilibrio formale della composizione sono, al solito, il segno e il colore. Le tracce spesse e forti del nero si stagliano decise sul fondo bianco e, variamente intrecciandosi e separandosi, danno forma a due sequenze verticali dove i pieni e i vuoti si articolano, quasi figure totemiche affrontate, cui due parchi tocchi di rosso forniscono un calibrato equilibrio, mentre conferiscono allo spazio una profondità misurabile. Se nell’immagine c’è il rimando a una sorta di figurazione ancestrale (per cui viene automatico il riferimento ai primi interessi di Capogrossi e alla sua adesione al movimento del Primordialismo plastico nel lontano 1933) , essa è tuttavia dominata da una meditazione rigorosa che ne fa il prodotto di una purissima distillazione mentale.

Le qualità di controllo della materia, degli strumenti, delle emozioni erano particolarmente apprezzate da Luciana Tabarroni, forse perché congeniali agli incisori; dunque la considerazione per il lavoro di Capogrossi fu immediata, così come la comprensione della sua poetica e del suo ruolo nella storia della grafica e, più ampiamente, dell’arte europea. L’opera si evidenzia nella collezione con un peso e un significato speciali proprio in virtù della tempestività del suo acquisto e della sua “diversità” rispetto alle altre accanto a cui va a collocarsi, primo segnale dell’apertura a quanto è veramente contemporaneo che la Tabarroni vuole come segno distintivo della raccolta. Ma ancora altre ragioni, meno evidenti eppure suggestive, rendono emblematica questa litografia. A cominciare dalla data di nascita dell’artista, all’inizio di quel secolo entro cui la collezionista concentra i suoi studi, di cui ritiene fondamentali i mutamenti artistici e a cui intitola la sua raccolta. Curiosamente Capogrossi è il solo nato nel 1900 fra gli artisti italiani rappresentati in collezione, di un anno più giovane di Fontana, Ligabue e Lega e di uno più vecchio di Marino Marini e Ivo Pannaggi. In seguito, la “nuova nascita” dell’artista si pone proprio alla metà di quel secolo fatale, nel 1950, quando in arte tutto cambia e Luciana Tabarroni, attratta da quei mutamenti, si accinge a documentarli e a decifrarli tramite le opere che comincia ad acquistare. Al di là di questi dati simbolici, comunque, Capogrossi pare avere tutto per essere in sintonia con la collezionista, iniziando dalle inclinazioni culturali: ad esempio l’interesse inconsueto per l’arte viennese per cui lei pure aveva una propensione, ritenendo sottovalutato il suo raffinato concettualismo rispetto all’egemonia dell’Ecole de Paris;o la connotazione segnica di tutta la sua opera che lo induce ad accostarsi alla grafica con l’atteggiamento del grafico e non del pittore.

Infine, un’ulteriore ragione che, unita alle altre, può legittimare la nascita e la vita della collezione “sotto il segno di Capogrossi” è l’autonomia che sempre contraddistinse l’artista pur nella partecipazione alla cultura del suo tempo e gli consentì di compiere scelte del tutto personali: un valore che Luciana Tabarroni apprezzava in modo speciale, perseguendolo lei stessa fermamente nello studio e nel lavoro.

Note

[1] Bologna 2003, pp. 69, 71; Roma 2004, pp. 85, 87.
[2] Hase Schmundt 1982.
[3] Argan e Fagiolo 1967, p. 180, n. 371.

Bibliografia

Seuphor 1954
M. Seuphor, Capogrossi, Venezia, 1954.

Tapié 1962
M. Tapié, Capogrossi, Venezia 1962

Argan e Fagiolo 1967
G. C. Argan e M. Fagiolo, Capogrossi, Roma, 1967.

Roma 1974-1975
Giuseppe Capogrossi, catalogo mostra a cura di B. Mantura, introduzione di P. Bucarelli (Roma 1974-1975), Roma, 1974.

Hase Schmundt 1982
U. Von Hase Schmundt, Capogrossi. Das graphische Werk, Zurigo, 1982.

Urbino 1987
Capogrossi. Opera dal 1947 al 1972, catalogo mostra a cura di M. Apa (Urbino 1987), Milano-Roma 1987.

Bologna 2003
L’Europa a Bologna, catalogo della mostra a cura di J. Bentini, collaborazione di F. Farneti (Bologna 2003), Venezia, 2003.

Roma 2004
L’Europa nella grafica del Novecento, catalogo della mostra a cura di J. Bentini, M. Faietti, F. Farneti (Roma 2004), Venezia, 2004.

Indice
Fabia Farneti
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