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Immaginari Pop

Immaginari Pop

Come è stato rilevato in precedenti occasioni espositive e da ciò che emerge dagli scritti di Luciana Tabarroni la sua collezione negli anni si è costituita come una sorta di storia dell’Europa raccontata per immagini,  una storia grafica di un continente geografico costruita pazientemente nazione per nazione nel tentativo costante di definire un’idea precisa di comunità culturale europea [1]Griffiths 2003, pp. 15-19. che travalicasse le contrapposizioni politiche tra Ovest e Est. I criteri di scelta e la catalogazione delle grafiche sin dagli inizi della collezione erano vincolati ad una suddivisione geografica, oltre che anagrafica, per cui gli artisti erano scelti in base all’area di provenienza e all’anno di nascita, tenendo fede ad un criterio generazionale che nei decenni Sessanta-Settanta era adottato nella maggior parte degli eventi espositivi dedicati alla grafica, come nel caso delle Biennali Internazionali della Grafica di Firenze [2]Bottinelli, 2007., prime manifestazioni che tentano un’apertura verso i paesi del blocco orientale europeo, dove la tradizione grafica e incisoria ha radici molto lontane. Nei due decenni Sessanta e Settanta con la trasformazione dei mezzi espressivi attraverso le Neovanguardie, la grafica assume una nuova veste, si diffonde la serigrafia, ma soprattutto si amplia il concetto di opera d’arte moltiplicata: alla sacralità del pezzo “unico” si sostituisce il pezzo “numerato” concepito proprio per essere prodotto in serie come qualsiasi oggetto di consumo, portando di conseguenza ad una diffusione più capillare e “democratica” delle opere d’arte. La “stampa d’arte” in questi due decenni si fa partecipe delle idee, delle forme e delle tecniche del suo tempo, prestandosi a fare da portavoce delle ultime tendenze artistiche, contribuendo quindi a diffonderle presso un pubblico più ampio e non solo specialistico.

I primi anni Sessanta sono quelli che “omologano” e normalizzano le ricerche delle Avanguardie del primo Novecento, iniziando quella che Rosenberg chiama “la tradizione del nuovo” [3]Rosenberg 1964., da cui si dipartono due linee operative distinte: una più razionale e analitica, e una volta al recupero del repertorio degli oggetti e delle immagini dell’universo urbano e della cultura tecnologica, con uno spostamento di valore dalla dimensione esistenziale e soggettiva dell’opera, cara al precedente clima dell’Informale, alla dimensione collettiva e oggettiva. Già con la “Nuova figurazione”, etichetta ripresa dalla mostra omonima del 1963 alla Strozzina di Firenze [4]Calvesi 1963a., comincia ad emergere anche in Italia una ricerca volta appunto ad un nuovo immaginario figurale  che si oggettivizza, che si traduce nelle nuove icone di ciò che popola il reale, la società contemporanea, la comunicazione, i nuovi mass media, portando in sé i germi di quell’atteggiamento “Pop” che si diffonderà di lì a poco fatto di un particolare “realismo” applicato all’iconografia dell’artificiale, agli oggetti e alle immagini di largo consumo. Come sottolinea con estremo acume critico Gillo Dorfles proprio nel 1964, “ la civiltà del consumo si mescola e interferisce di continuo con una ‘civiltà dell’immagine’ […]; siamo immersi e partecipi, ormai, d’una società di massa che domina, volere o no, e dominerà sempre più l’intero pianeta”   [5]Dorfles 1964..

Non è questa la sede per affrontare una disamina esaustiva delle ragioni estetiche, critiche e filosofiche che portano al radicale cambio di clima artistico dei primi anni Sessanta con l’avvento delle correnti legate alla Pop Art, ma vale la pena di sottolineare come in contemporanea al suo svolgersi, o addirittura nel decennio precedente, alcuni studiosi abbiano codificato lucidamente queste  tendenze; infatti, in un saggio del 1958 intitolato Le arti e i mass media [6]Alloway 1958, p. 343., Lawrence Alloway, padre dell’etichetta Pop Art, afferma che le arti popolari o di massa costituiscono una delle più straordinarie e  tipiche conquiste della società industriale, e orientano il consumatore verso stili attuali antiaccademici.  Alla fine degli anni Cinquanta la definizione di “pop art” non è ancora diffusa a livello planetario, ma in Gran Bretagna si parla già di “pop culture” in senso di cultura popolare ma anche in senso onomatopeico, riferendosi al rumore improvviso provocato dallo scoppio di qualcosa e dall’esplosione liberatoria. La cultura pop è un fenomeno dai tratti rivoluzionari, una sorta di “convergenza internazionale”, prendendo a prestito il titolo di un saggio di Alberto Boatto [7]Cfr. Boatto 1967, pp. 176-195., in cui una nuova generazione di artisti europei ed americani si rivolta contro gli schemi irrigiditi dell’alta cultura europea per rivolgersi al panorama della realtà che, seppur trasfigurata e sintetizzata in figure iconiche, assurge ad una nuova dimensione estetica. Nonostante la studiosa Lucy R. Lippard affermi che in Germania, Italia, Francia non esista una vera e propria Arte pop [8]Cfr. Lippard 1966, pp. 173-174., è innegabile che in questi paesi e in altri del vecchio continente si sia assistito ad una progressiva infiltrazione dei temi e delle tecniche proprie di questa corrente. Che l’Europa, reduce dalle rovine del secondo conflitto mondiale, non fosse allineata agli Stati Uniti per condizioni e stili di vita, oltre che per avanzamento tecnologico, è innegabile, ma Lippard insiste sul fatto che la vera Pop Art sia il prodotto di una società ricca, di tradizione anglo-sassone, e che quindi sia potuta nascere nella sua formulazione originaria in Gran Bretagna e Stati Uniti, paesi maggiormente industrializzati ed economicamente avanzati. Questa visione riduttiva che difende l’autenticità autoctona della Pop Art poteva essere in parte condivisibile qualche decennio fa, ma attualmente appare superata se ti tiene conto che ciò che oggi chiamiamo “omologazione culturale”, o in altri termini “villaggio globale”, per prendere a prestito la profetica definizione del culturologo Marshall McLuhan, abbia avuto inizio proprio nel decennio Sessanta, quando con differenti scarti temporali è possibile rintracciare nella ricerca artistica europea un itinerario parallelo a quello americano. Nel giro di pochi anni persino nelle opere di molti artisti dell’estremo Nord e dell’Est Europa [9]Cfr. Becker 1987, p.18. è individuabile la presenza di tendenze pop-oggettuali, con un’attenzione che si rivolge alla scena urbana e all’iconografia dei mass media secondo le modalità del realismo degli oggetti e delle “immagini al potere” [10]Cfr. Detheridge 1996..

Ma eccoci finalmente, dopo questo breve excursus storico-critico, a motivare il titolo Immaginari Pop dato ad una delle sezioni della mostra Sessanta/Ottanta, un titolo a carattere largo e inclusivo che  non compie cesure né intende etichettare in modo univoco le trentasei opere grafiche esposte, ma intenzionalmente si pone come un ipotetico contenitore di ricerche e tematiche affrontate da artisti di tutta Europa negli anni Sessanta e Settanta. Cercando di rispettare la sensibilità storica di Luciana Tabarroni – esempio di collezionista erudita, internazionale e interdisciplinare che ha saputo raccogliere opere che documentano le molteplici correnti del Novecento, passando anche per quelle minori e meno note [11]Faietti 2004. – l’approccio adottato per questa mostra ha cercato di proporre una lettura critica e stilistica trasversale, con l’intento sia di  valorizzare le opere sia di illustrare come le correnti e le tendenze che animano la ricerca artistica europea tra gli anni Sessanta e Settanta trovino una trascrizione puntuale anche nella produzione grafica coeva. In questi due decenni, infatti, il boom della produzione artistica seriale attraverso la grafica appunto, diventa un mezzo condiviso da molti artisti che sperimentano le potenzialità insite in questa tecnica trasformandola in una significativa pratica espressiva, anche se non esclusiva, della propria attività.

Nella sezione Immaginari Pop ritornano le immagini “riconoscibili”, con la rappresentazione di “cose e figure” della vita quotidiana, in una sorta di risemantizzazione dal basso dei soggetti popolari e delle merci della nascente società dei consumi. Un esempio in tal senso è l’acquaforte The pressed shirt (1961, fig.1, Tip. 31119) di Domenico Gnoli qui ancora attratto, come la generazione dei compagni artisti italiani dei primi anni Sessanta [12]Cfr. Spadoni 1988., da temi discreti, da profili ed elementi grafici ricchi di simbologie non leggibili secondo gli stilemi della figurazione tradizionale, ma secondo quel particolare clima definito da Renato Barilli [13]Cfr. Barilli 1967a, pp. 243-246. di “nuova oggettività”: l’oggetto è banale, una semplice camicia stirata su un tavolo, un indumento quotidiano che ironicamente prende il posto delle consuete bottiglie, dei vasi di fiori o dei piatti tipici nel genere natura morta. Assistiamo ad un’iconografia del quotidiano in versione standardizzata ripresa dalle immagini dei media anche nel caso di Prodotto italiano (1965, fig. 2, Tip. 31078) di Enrico Baj, che simula un manifesto pubblicitario, e nell’acquaforte I baffi del nonno (1966, fig. 3, Tip. 31129)  di Paolo Carosone, in cui le ripetizioni del profilo ottocentesco nello stesso foglio si prestano ad elaborazioni grafiche e cromatiche fantasiose su cui spiccano i finti bersagli spiraliformi.

Figura 1: Domenico Gnoli, The pressed shirt, 1961, Tip. 31119 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 2: Enrico Baj, Prodotto italiano, 1965, Tip. 31078 © Polo Museale Emilia Romagna 

Figura 3: Paolo Carosone, I baffi del nonno, 1966, Tip. 31129 © Polo Museale Emilia Romagna 

 

Questo reportage della realtà [14]Calvesi 1963b, pp. 280-294., questa presa diretta sull’attualità consente agli artisti di ampliarne i contenuti in molteplici combinazioni, mediante trascrizioni sintetiche al limite dell’arte fumettistica, come testimoniano ad esempio i numeri delle maglie dei giocatori in Drei angeschnittene Spieler I, (1965, fig. 4, Tip. 30676)  del tedesco Fritz Genkinger, che farà delle immagini sportive un leit motiv delle suo repertorio di opere grafiche e pittoriche, come il famoso manifesto della World Cup di calcio 1974; o mediante le scritte abbinate a improbabili congegni meccanici nell’acquaforte Chaos (1972-1963, fig.5, Tip. 30390) dello svizzero Jean Tinguely. Questa grafica, che riproduce un ipotetico progetto di macchina, evidenzia il particolare approccio fantastico dello scultore al movimento meccanico: Tinguely, nelle sue riproposizioni di macchine celibi di duchampiana memoria, enfatizza il moto frenetico e lo spreco di energie che usura l’oggetto fino a distruggerlo, in una sorta di metafora che riassume la vita moderna e in cui uomo e macchina si scambiano le parti [15]Boatto 1967, p. 180-181.. Il tema della standardizzazione, di un’umanità dal volto anonimo e serializzata come le merci di consumo, appare nella serigrafia Senza titolo, (1975, fig. 6, Tip. 30223) dell’artista greco Yannis Gaitis [16]Cfr. Marchiori 1968., che già dai primi anni Sessanta definisce uno stile compositivo ricorrente, fatto di identiche figure di giovani uomini (anthropakia) quali simboli dell’uniformità, della sterilità  e dell’alienazione della vita di massa .

 

Figura 4: Fritz Genkinger, Drei angeschnittene Spieler I, 1965, Tip. 30676 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 5: Jean Tinguely, Chaos, 1972, Tip. 30390 © Polo Museale Emilia Romagna 

Figura 6: Yannis Gaitis, Senza titolo, 1975, Tip. 30223 © Polo Museale Emilia Romagna 

 

L’artista serbo Mateja Rodici, in mostra alla Galleria La Nuova Pesa di Roma già nel 1965 [17]Cfr. Marin 1965., propone nell’acquaforte Senza titolo (1962, fig. 7, Tip. 30429) un uccello fortemente stilizzato racchiuso in un groviglio di segni che raffigura il mondo, simboleggiando con un’icona che assomiglia alla colomba della pace la potenza di un concetto che necessita di essere condiviso dall’intera umanità. Altri artisti di provenienza nord europea, come il belga Paul Van Hoeydonk e il finlandese Raimo Kanerva invece si rivolgono agli emblemi oggettuali patinati e brillanti tipici della comunicazione di massa. Van Hoeydonk – famoso per la scultura in alluminio Fallen Astronaut  [18]Cfr. Powell, Shapiro 2013. realizzata per essere inviata sulla Luna nel 1971 con la missione della NASA Apollo 15 – nella serigrafia Cybernetische hand (1969, fig. 8, Tip. 29477) gioca la figurazione in modo netto e preciso, ponendo in risalto una dicotomia tipica del periodo storico, l’organicità e la naturalità di un elemento fitomorfo in contrasto con l’avanzamento tecnologico e l’artificialità di una mano robotica, in sintonia con interesse per le missioni spaziali che permea la maggioranza dei suoi lavori pittorici e scultorei. Nel caso di Raimo Kanerva invece i simboli e gli oggetti quotidiani si compongono in una figurazione dai toni fantastici e vagamente surreali, in cui la tradizione orale nordica della favola si mescola con personaggi dei fumetti, con cibarie, con strumenti musicali o con elementi d’arredo come nella serigrafia Piccolo mare III (1978, fig. 9, Tip. 29988). Le variazioni di scala e gli inconsueti blow up  [19]Cfr. Barilli 1976, pp. 146-157. all’interno della composizione sono giocati in modo sapiente per creare straniamento, ma soprattutto stupore e meraviglia: il mare si presta a diventare il cuscino di una poltrona su cui galleggia un’anatra meccanica sulla quale inaspettatamente volteggiano dei gabbiani. Le raffigurazioni iconiche di improbabili condensazioni oggettuali dello spagnolo Eduardo Arroyo, pur attestandosi nel clima Pop del decennio, tendono a sviluppare una tematica di recupero delle immagini colte della storia dell’arte. La sua particolare soluzione “storicistica”, come la definisce Renato Barilli [20]Barilli 1967b, pp. 247-250. in un testo del 1967, sta nel combinare in modo ironico e talvolta dissacrante il vasto repertorio del museo con gli stereotipi culturali ed ideologici della contemporaneità, come si evidenzia anche nella serigrafia Le addizioni sbagliate (1971, fig. 10, Tip. 30290).

 

Figura 7: Mateja Rodici, Senza titolo, 1962, Tip. 30429 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 8: Van Hoeydonk, Cybernetische hand , 1969, Tip. 29477 © Polo Museale Emilia Romagna 

 

Figura 9: Raimo Kanerva, Piccolo mare III, 1978, Tip. 29988 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 10: Arroyo Edoardo, Le addizioni sbagliate , 1971, Tip. 30290 © Polo Museale Emilia Romagna 

 

Dopo questa parziale carrellata fra le grafiche della sezione Immaginari Pop un posto di rilevo è da attribuirsi infine ai diversi artisti protagonisti della Pop Art inglese presenti nella collezione Tabarroni con trentuno opere grafiche provenienti da una cartella acquistata direttamente nel 1988 dal Royal College of Art [21]Cfr. Farneti 2004.. Tra le opere esposte spiccano nomi illustri, appartenenti alla prima fase della corrente inglese e alle mostre d’esordio dell’Indipendent Group come Eduardo Paolozzi, e altri artisti più giovani come Joe Tilson, David Hockney, Ronald Brooks Kitaj, Patrick Caulfield e Allen Jones tutti provenienti dal prestigioso Royal College of Art. Questa seconda generazione di artisti britannici – tranne Kitaj che è americano – sono raggruppati da Lawrence Alloway nella cosiddetta terza fase della Pop [22]Cfr. Alloway 1966., ovvero quella che si esprime maggiormente in senso “popolare”, che si nutre dell’ambiente urbano e che fa uso di immagini stereotipate di personaggi famosi, di emblemi  e di luoghi comuni della cultura di massa. Entriamo con questo gruppo nel vero e proprio clima della Pop figurativa che abbandona il segno indeterminato per adottare contorni decisi, campiture piatte, colori artificiali, squillanti e industriali, dimensioni fuori scala di dettagli o particolari, secondo un procedere per sineddoche, ovvero dando risalto ad una parte per significare il tutto.

Anche se più anziano di oltre dieci anni rispetto agli altri colleghi inglesi, lo scozzese di origine italiana Eduardo Paolozzi esibisce agli inizi della carriera un’ampia serie di collage di immagini e di assemblage polimaterici, ma nei primi anni Sessanta sperimentando le potenzialità della serigrafia procede in mirabolanti articolazioni figurative e geometriche dai colori fortissimi che, come in Universal electronic vacuum (1968, fig. 11, Tip. 30131), spesso rimandano alla tecnica musiva o ai primissimi computer games, in cui giganteschi pixel colorati si alternano come in una danza sulla superficie dello schermo. In Air Mail Letter  (1968, fig. 12, Tip. 30134) di Joe Tilson, invece, troviamo l’emblema classico della città di New York, la meta turistica e l’attrazione per eccellenza del periodo, quando l’Empire State Building era ancora il grattacielo più alto al mondo, primato questo che consente all’artista di giocare con l’immagine litografata di quest’ultimo come fosse un marchio distintivo della cultura americana.

 

Figura 11: Eduardo Paolozzi, Universal electronic vacuum, 1968, Tip. 30131 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 12: Joe Tilson, Airmail letter , 1968, Tip. 30134 © Polo Museale Emilia Romagna 

 

La continuità tra cultura alta e cultura popolare, divenute appunto un unicum indistricabile in quegli anni, è rintracciabile anche nell’acquaforte Ossi and Mo (1968, fig. 13, Tip. 30160) di David Hockney – di cui si è tenuta recentemente una mostra antologica alla Tate Britain di Londra [23]Cfr. Stephens, Wilson 2017. – dove siamo di fronte ad uno dei tanti ritratti che documentano l’interesse dell’artista per il mondo della musica e della moda negli anni della Swinging London: Ossi è lo stilista Ossie Clark, amico intimo di Hockney, uscito anch’egli dal Royal College of Art e diventato un’icona della moda inglese [24]Cfr. Watt 2003, pp. 43-45.. Un disegno dai contorni netti che tratteggia abilmente le figure e i corpi femminili mettendone in risalto le componenti sensuali ed erotiche è il leit motiv delle opere di Allen Jones, di cui troviamo in mostra una bellissima e sofisticata acquaforte: la sua Miss (1966, fig. 14, Tip. 30161)  procede con fare sicuro e provocante su tacchi alti mostrando due gambe tornite su cui svolazza una maliziosa gonna. La necessità di coniugare disegno grafico e pittura, problema che si pone ad alcuni degli artisti della terza fase della Pop, in Patrick Caulfield sembra essere superato dal ricorso a campiture piatte e compatte, “dure” al limite dello scultoreo, dove il contorno delle figure e degli oggetti si delinea deciso e netto senza nessuna attenzione per implicazioni prospettiche: gli oggetti sembrano incisi sulle tele e anche nella produzione grafica si traducono con la stessa forza espressiva sintetica e plastica, come si evince nella serigrafia dal titolo esplicativo All the benches are wet, the woods are so rusty (1973, fig. 15, Tip. 30158).

 

Figura 13: David Hockney, Ossi and Mo, 1968, Tip. 30160 © Polo Museale Emilia Romagna
Figura 14: Allen Jones, Miss, 1968, Tip. 30161 © Polo Museale Emilia Romagna 

Figura 15: Patrick Caulfield, All the benches are wet, the woods are so rusty, 1973, Tip. 30158 © Polo Museale Emilia Romagna 

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Note

[1] Griffiths 2003, pp. 15-19.
[2] Bottinelli, 2007.
[3] Rosenberg 1964.
[4] Calvesi 1963a.
[5] Dorfles 1964.
[6] Alloway 1958, p. 343.
[7] Cfr. Boatto 1967, pp. 176-195.
[8] Cfr. Lippard 1966, pp. 173-174.
[9] Cfr. Becker 1987, p.18.
[10] Cfr. Detheridge 1996.
[11] Faietti 2004.
[12] Cfr. Spadoni 1988.
[13] Cfr. Barilli 1967a, pp. 243-246.
[14] Calvesi 1963b, pp. 280-294.
[15] Boatto 1967, p. 180-181.
[16] Cfr. Marchiori 1968.
[17] Cfr. Marin 1965.
[18] Cfr. Powell, Shapiro 2013.
[19] Cfr. Barilli 1976, pp. 146-157.
[20] Barilli 1967b, pp. 247-250.
[21] Cfr. Farneti 2004.
[22] Cfr. Alloway 1966.
[23] Cfr. Stephens, Wilson 2017.
[24] Cfr. Watt 2003, pp. 43-45.

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Indice
Silvia Grandi
Immaginari Pop
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